venerdì 19 febbraio 2016

Sette giorni alla fine del mondo

Sette giorni alla fine del mondo



Tiro un colpo.
Poi un altro.
La zappa infilza la terra con tutta la violenza e la rabbia di cui sono capace.
Mi prendo cura di questo misero pezzo di terra da anni, armato di pazienza e olio di gomito. La canotta mi si appiccica al petto; sto sudando come una pecora nel deserto ma non mi fermo. Dicevo: da molti anni vivo qui con la mia famiglia, non saprei più dire da quanti di preciso. L'unica cosa che so, è che la mia famiglia continuerà a vivere qui per sempre.
Per quanto riguarda me, chissà. Mia moglie, Viola, non è certamente quel tipo di donna che un uomo sposerebbe mai. Non per l'aspetto, di quello non me ne sono mai lamentato.
Mia figlia ha otto anni, ha i suoi stessi capelli e i suoi stessi occhi. Un tempo le amavo entrambe, oggi invece sono qui a scavare.
Finito con la zappa, prendo la vanga; è proprio lungo il lenzuolo bianco che avvolge mia moglie. Adesso che il terreno è più morbido, posso scavare più facilmente. Scavo fino al tramonto, finché la buca non è abbastanza larga e profonda. Poi ci salto dentro, ci cammino un paio di volte su e giù, mi ci sdraio, girando la testa da un lato all'altro e decido che è perfetta. Quindi mi metto a ridere; una risata strana. Non so nemmeno io di che tipo di risata si tratta. Certamente non felice. Sicuramente non divertita. Comunque sia, mi rialzo, poggio la pala sul cumulo di terra e afferro mia moglie dai piedi. Lei è nel lenzuolo bianco. La tiro giù nel fosso, faccio un po' di fatica a sistemarla sul lato sinistro, forse perché è da due ore che sono qui a scavare.
Una volta sistemato il corpo, mi tiro su e con le mani dietro la schiena mi inarco in avanti; gli anni di lavoro si fanno sentire. Certe volte mi chiedo perché ho scelto questa vita, altre, faccio finta che sia stata mia moglie a sceglierla per me.
Torno su, guardo il cielo violaceo; presto sarà buio. Allora mi dico che forse è meglio fare in fretta. Mia figlia è nel lenzuolo rosa, quello con i fiori e gli orsi. Tirare lei nel fosso è molto più semplice, non mi costa fatica. La sistemo di fianco a sua madre e mi faccio il segno della croce, tanto per. Penso che è quello che lei avrebbe voluto e nonostante tutto, ho ancora un po' di rispetto nei suoi confronti.
Forse, però, dovrei parlavi di questa storia dall'inizio.
Forse dovrei dirvi che non è stata colpa mia, altrimenti mi prendete per un mostro.
Ed io non sono un mostro.

- Giorno 1
Stiamo cenando. La TV, come al solito, non prende nemmeno un canale. La lascio accesa tanto per sentire qualcosa, e quel qualcosa è il suo fruscio continuo. Mi da sui nervi ma almeno copre il silenzio angosciante. Perché, sapete, mia moglie e mia figlia non parlano mai. Penso siano mute entrambe, o meglio, penso che lo siano diventate poco dopo il terremoto, quello di pochi anni prima che ha ucciso mezzo paese.
Comunque, il fruscio della TV è sicuramente meglio del rumore delle posate che colpiscono ritmicamente il piatto. Quello, da solo, è ancora più angosciante, quindi, ogni volta che rientro dalla campagna, accendo la TV e la lascio fischiare.
La cena è la stessa da diverso tempo. Patate. Dietro le mie spalle, appeso malamente alla parete, c'è l'omonimo quadro di Van Gogh, i mangiatori di patate. Una copia da quattro soldi, mica quello originale. L'ho trovato qualche giorno prima in una delle tante case crollate o abbandonate; non ricordo con precisione. L'ho appeso e ne ho fatto un monito, una denuncia. Ero stanco di mangiare sempre e solo patate ma mia moglie, Viola, non ne capisce niente di arte, quindi ha continuato a cucinare patate.
I nostri sguardi s'incrociano sempre quando siamo a tavola, spesso ci fissiamo per delle ore, immobili come statue, finché il sonno non mi colpisce forte con un martello dietro la testa e le dico, rassegnato, di andare a letto.
Penso sia anche sorda, perché tutte le volte dovo prenderla dal braccio e trascinarla nella stanza.
Mi sono svegliato all'alba. Mi sono vestito, mi sono sciacquato la faccia in una bacinella e sono uscito di casa. Tutte le mattine saluto Stefano, il vicino, ma lui non ricambia mai. Gli chiedo se soffre ancora d'insonnia; lui si limita a fissarmi. Qualsiasi cosa gli dico, Stefano non risponde, quindi alla fine la cosa mi annoia e lo saluto, augurandogli comunque buona giornata. Le buone maniere prima di tutto.
Il campo è poco distante da casa, quindi ci metto molto poco a raggiungerlo. Lascio sempre tutti gli attrezzi all'aperto; mi fido ciecamente del mio paese.
Quel giorno non ho fatto altro che zappare, tagliando via le erbacce anche dai campi confinanti. Dopo il terremoto nessuno vuole più prendersi cura della terra, quindi ci penso io.
Poco prima del tramonto, ho raccolto delle patate e le ho portate a casa. Le ho lasciate in cucina e ho gridato a mia moglie che ero tornato. Allora sono andato in soggiorno e ho trovato lei e Aurora sedute sul divano, davanti alla TV spenta. Ricordo di aver provato dell'odio, in un certo senso. Comunque, rassegnato, mi sono messo a cucinare da solo. Ho bollito le patate, le ho messe nei piatti e sono andato in bagno. La vasca era ancora piena dell'acqua del giorno prima, quindi mi sono spogliato e ci sono entrato dentro. Un bagno veloce, è durato giusto il tempo di lavare via il sudore, poi ricordo di essermi fatto la barba. E ricordo che mentre la rasavo a zero, mi sono tagliato il mento.
A cena, mia moglie non mi ha chiesto perché avessi un cerotto sul mento. Mia figlia non l'ha nemmeno notato, credo. Come la sera prima, finita la cena, ho dovuto trascinarle entrambe nei rispettivi letti. Ero stanco, quindi mi sono girato dal lato opposto e ho dormito.

- Giorno 2
Ricordo che quella mattina mi sono svegliato più tardi del solito. Ho lavorato, ho pranzato con un panino con le patate, ho salutato Stefano, che di nuovo non mi ha risposto e quando sono tornato a casa, avevo voglia di conversare.
Ho detto delle cose alla mia famiglia. “Stefano soffre ancora d'insonnia” ho detto a mia moglie. Viola mi ha guardato negli occhi. “Lo trovo lì tutte le mattine, a qualsiasi ora, ed è sempre lì quando torno” Viola mi ha guardato di nuovo, poi ha continuato a impastare le patate con la forchetta.
Quella sera ho mandato giù più vino del solito. Ricordo che mi girava la testa, che mi sono alzato un po' barcollando e mi sono seduto sul divano. Ho guardato la TV per un'ora o due, finché, a un certo punto, ho smesso di barcollare per il vino e ho iniziato perché vedevo tutto a punti bianchi e neri. Ho trascinato Aurora nel suo letto, le ho augurato la buona notte, poi sono tornato da mia moglie e le ho detto che avevo un po' voglia di lei. Viola mi ha guardato, ha sbattuto una volta le palpebre ed è tornata a schiacciare le patate con la forchetta. È stata quella la prima volta che mi sono arrabbiato. L'ho afferrata per i capelli e l'ho tirata su, poi l'ho trascinata per il braccio nella stanza, ho chiuso la porta, l'ho sbattuta nel letto e abbiamo fatto l'amore. Anche mentre lo facevamo, lei non parlava, non gemeva, non mi diceva niente. Non sorrideva, non prendeva nessun tipo di iniziativa, eravamo lei sotto ed io sopra, io che mi dannavo, che sudavo, e lei che fissava un punto imprecisato della stanza. Quindi mi sono fermato perché la cosa non mi eccitava, ho ripreso un po' di fiato, respirandole sulla fronte, e mi sono sdraiato sul mio lato del letto. Ho spento la luce e mi sono addormentato poco dopo.

- Giorno 3
Quel giorno ho deciso di fare un giro diverso dal solito, quindi sono passato per il centro del paese. Nonostante sia prima mattina, c'è un po' di gente seduta sulle panche. Ricordo anche di un bambino, un ragazzino poco più grande di mia figlia, che gioca sull'altalena. Li ho salutati con un cenno della testa. Ho preso le sigarette dalla tasca e me ne sono fumato una. Dopo il terremoto avevo deciso di smettere ma quel giorno ho cambiato idea, quindi ho ricominciato.
È una bella giornata” ho detto al signore seduto sulla panchina. Questo mi ha guardato in modo strano. Mi sono seduto al suo fianco e ho fissato l'orizzonte per un po'. Ho fumato un'altra sigaretta, gli ho soffiato del fumo sulla faccia ma il signore ha fatto finta di niente. Allora mi sono alzato e mentre tornavo a casa, sull'altro lato della strada, ho visto la signora Teresa. L'ho salutata agitando la mano, lei mi ha guardato con un po' di confusione. “Sono io” le ho detto mentre mi avvicinavo. “Sono Noah” ma la signora Teresa ha continuato a fissarmi in quel modo. “Avete un bel vestito. Vi dona” è blu cobalto, ha dei diamanti finti come bottoni e ci ha abbinato un enorme cappello di quelli un po' vecchi, sempre dello stesso colore. Al braccio ha una borsetta della stessa seta e al collo una collana molto vistosa, che brilla sotto i raggi del sole. “Sto andando a lavoro” le ho detto infine. “Buona giornata” ho abbassato la testa e sono tornato nel mio campo di patate.

- Giorno 4
È domenica, quindi mi concedo un giorno di riposo dalla campagna. Lo passo per lo più sul divano, mezzo nudo e con il bicchiere di vino sempre pieno. La TV sfrigola, i punti bianchi e neri un po' mi uccidono la vista un po' mi rilassano e di questi tempi accetto ogni spiraglio di tranquillità, anche quella che nasconde del dolore o della noia.
Riempio il bicchiere di vino e scopro che la bottiglia è finita. Allora chiamo mia moglie, le urlo di raggiungermi. La chiamo per nome non so quante volte; niente. Afferro la bottiglia vuota, mi alzo di colpo, vado nella stanza da letto e mi metto a urlare. Lei è lì che si guarda allo specchio.
Mi gira molto la testa, quasi vado a sbattere contro l'armadio. Apro la finestra, lancio la bottiglia in strada e respiro un po' di aria fresca. Questo mi calma.
Afferro Viola dalla mano e la trascino in cucina. La faccio sedere sul divano, quindi mi siedo al suo fianco. Guardiamo insieme la TV per un po', forse dieci o quindici minuti.
Non so perché ma mi sento depresso e mi viene da piangere. Lentamente abbraccio mia moglie, la stringo forte, affondo la testa nei suoi seni e restiamo in quella posizione fino a notte inoltrata. Quando alzo la testa dal suo petto, scopro che le ho bagnato il vestito di lacrime e bava. Mi scuso, prendo un tovagliolo e lo batto sulla stoffa. Spengo la TV e le chiedo se mi ama. Le dico “Mi ami?” senza parlare, soltanto muovendo le labbra. Mi alzo, mi chino alla sua altezza e le indico le mie labbra. “Mi ami ancora?” dicono le mie labbra. Lei però mi guarda negli occhi.

- Giorno 5
Ho rinunciato a farmi capire da mia moglie e da mia figlia. Mi rendo conto, in realtà, di aver rinunciato a troppe cose nella vita. Decido di rimediare.
Esco, dico a Stefano che per quanto mi riguarda può anche morirci, d'insonnia, e vado in un negozio di vestiti. Ci sono solo due persone. La proprietaria, dietro al bancone, e una donna alta e magra, nella vetrina, che dovrebbe lavare il vetro ma se ne sta lì a fissare la strada. Mi sento un po' in imbarazzo, a dire il vero. Saluto Maria con un cenno della testa, lei solleva lo sguardo dalla rivista e lo riabbassa nell'istante successivo. Mi guardo intorno, mi gratto la testa; non ricordo la taglia di mia moglie. Comunque passo in rassegna diversi abiti finché non trovo uno simile a quello della signora Teresa, blu cobalto, molto corto e stretto, e lo porto sul bancone. Chiedo alla signora Maria il prezzo ma lei non risponde. Guardo dietro al vestito, dove c'è la targa; 150€. Dico che secondo me sono un po' troppi ma alla fine Maria riesce a convincermi del contrario. Le lascio i soldi sul tavolo ed esco dal negozio. La ragazza nella vetrina mi segue con lo sguardo.
Siccome è ancora presto, lascio la busta vicino la staccionata e lavoro un po' in campagna. Do da mangiare alle galline di Federico, saluto il cavallo di Stefano, dicendogli che gli ho portato una mela. Il nome del cavallo è Stella. Stella divora la mela in due morsi e mi ringrazia agitando la testa e le zampe.
Torno a casa prima del tramonto. Aurora è seduta sul pavimento, in cucina, mentre Viola fissa il paese fuori dalla finestra. Prendo la bambina tra le braccia e la porto nella sua stanza. La faccio sdraiare sul letto e la copro con il lenzuolo, quello con i disegni di fiori e orsi. Faccio per andare via, poi cambio idea e resto un po' a guardarla finché non si addormenta. Allora le do un bacio veloce sulla fronte e le chiudo la porta.
Prendo mia moglie per il braccio e la trascino nella stanza. La spoglio e le metto l'abito nuovo, poi mi allontano e resto incantato dalla sua bellezza. Mi siedo sul letto, mi riempio un bicchiere di vino e resto lì a fissarla per tantissimo tempo.

- Giorno 6
Non ho molto da fare in campagna, quindi torno a ora di pranzo. Pranziamo tutti e tre insieme ma sono l'unico che mangia le patate. Viola e Aurora, come al solito, ci giocano.
Mia moglie indossa ancora l'abito blu cobalto. Oggi ho deciso che non le sta bene come ieri, quindi dopo pranzo la riporto in camera e la rivesto con i suoi soliti vestiti. Le dico, poco dopo, che ho voglia di una vacanza. Lei non risponde; non mi aspettavo niente di diverso. Le dico anche che parto l'indomani, che me ne vado, che le abbandono entrambe. Che non tornerò mai più. “Piangi” le dico. “Disperati” e ancora: “odiami” ma lei non piange, non si dispera e tanto meno ha l'aria di una che odia. Stringo i pugni e i denti, mi metto a piangere, mi dispero e la odio. Mi arrabbio più del solito. Tutto quello che mi capita tra le dita, lo prendo e lo lancio contro le pareti, contro lo specchio, contro la finestra. Lei se ne sta lì immobile, impassibile, con gli oggetti che le sfiorano la pelle e i capelli.
Mi calmo quando ormai fuori è sera. Mi sdraio sul letto e ci resto fino alla mattina dopo.

- Giorno 7
Dio ha creato il mondo in sette giorni.
Io in sette giorni l'ho distrutto.
Poche ore prima ho fatto sdraiare mia moglie sul lenzuolo bianco. Lei non ha detto una parola nemmeno quando le ho coperto il volto e l'ho trascinata fuori. Con mia figlia è stato un po' più difficile. Ci ho messo più tempo perché volevo godermi quegli ultimi istanti in sua compagnia. Nemmeno lei ha detto una parola quando l'ho ricoperta di fiori e orsi.
Ho preso la vanga e le ho seppellite proprio nel nostro campo di patate. Stanco morto, ho gettato la pala sul cumulo di terra e ho guardato il cielo. Non mi sono mai sentito così libero, così felice. Sono rientrato in casa. È tutto a pezzi, qui dentro. Ci sono macerie ovunque, ci cammino sopra. Prendo il cappotto e le chiavi della macchina ed esco. La casa si regge in piedi per grazia divina ma ormai fa parte del passato, non è più nei miei interessi.
Passo accanto a Stefano. Oggi Stefano somiglia a uno di quei manichini bianchi che ci sono di solito nei negozi di vestiti. Comunque evito di guardarlo perché nemmeno lui, nemmeno la sua insonnia, fa più parte dei miei interessi.
Prendo la mia vecchia auto, faccio riscaldare un po' il motore prima di partire, accendo le luci e do gas.
Passo accanto alla signora Teresa. Anche lei sembra uno di quei manichini magri e slanciati, bianchi e fulgidi. Anche il bambino che gioca sull'altalena o il signore seduto sulla panchina. Non mi interessa più niente di loro, quindi proseguo dritto e mi lascio il paese alle spalle.

Una volta un prete mi ha chiesto di provare a vedere Dio come una persona normale. Io ancora oggi lo immagino allo stesso modo, triste, laconico, riservato e schiavo della propria immagine.
Dio ha creato il mondo in sette giorni, io in sette giorni l'ho distrutto. C'è solo una cosa che mi chiedo adesso, prima di scomparire per sempre. Mi chiedo chi, tra noi due, tra il creare e il distruggere, abbia fatto la scelta migliore.  

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