Sette giorni alla fine del mondo
Tiro
un colpo.
Poi
un altro.
La
zappa infilza la terra con tutta la violenza e la rabbia di cui sono
capace.
Mi
prendo cura di questo misero pezzo di terra da anni, armato di
pazienza e olio di gomito. La canotta mi si appiccica al petto; sto
sudando come una pecora nel deserto ma non mi fermo. Dicevo: da molti
anni vivo qui con la mia famiglia, non saprei più dire da quanti di
preciso. L'unica cosa che so, è che la mia famiglia continuerà a
vivere qui per sempre.
Per
quanto riguarda me, chissà. Mia moglie, Viola, non è certamente
quel tipo di donna che un uomo sposerebbe mai. Non per l'aspetto, di
quello non me ne sono mai lamentato.
Mia
figlia ha otto anni, ha i suoi stessi capelli e i suoi stessi occhi.
Un tempo le amavo entrambe, oggi invece sono qui a scavare.
Finito
con la zappa, prendo la vanga; è proprio lungo il lenzuolo bianco
che avvolge mia moglie. Adesso che il terreno è più morbido, posso
scavare più facilmente. Scavo fino al tramonto, finché la buca non
è abbastanza larga e profonda. Poi ci salto dentro, ci cammino un
paio di volte su e giù, mi ci sdraio, girando la testa da un lato
all'altro e decido che è perfetta. Quindi mi metto a ridere; una
risata strana. Non so nemmeno io di che tipo di risata si tratta.
Certamente non felice. Sicuramente non divertita. Comunque sia, mi
rialzo, poggio la pala sul cumulo di terra e afferro mia moglie dai
piedi. Lei è nel lenzuolo bianco. La tiro giù nel fosso, faccio un
po' di fatica a sistemarla sul lato sinistro, forse perché è da due
ore che sono qui a scavare.
Una
volta sistemato il corpo, mi tiro su e con le mani dietro la schiena
mi inarco in avanti; gli anni di lavoro si fanno sentire. Certe volte
mi chiedo perché ho scelto questa vita, altre, faccio finta che sia
stata mia moglie a sceglierla per me.
Torno
su, guardo il cielo violaceo; presto sarà buio. Allora mi dico che
forse è meglio fare in fretta. Mia figlia è nel lenzuolo rosa,
quello con i fiori e gli orsi. Tirare lei nel fosso è molto più
semplice, non mi costa fatica. La sistemo di fianco a sua madre e mi
faccio il segno della croce, tanto per. Penso che è quello che lei
avrebbe voluto e nonostante tutto, ho ancora un po' di rispetto nei
suoi confronti.
Forse,
però, dovrei parlavi di questa storia dall'inizio.
Forse
dovrei dirvi che non è stata colpa mia, altrimenti mi prendete per
un mostro.
Ed
io non sono un mostro.
-
Giorno 1
Stiamo
cenando. La TV, come al solito, non prende nemmeno un canale. La
lascio accesa tanto per sentire qualcosa, e quel qualcosa è il suo
fruscio continuo. Mi da sui nervi ma almeno copre il silenzio
angosciante. Perché, sapete, mia moglie e mia figlia non parlano
mai. Penso siano mute entrambe, o meglio, penso che lo siano
diventate poco dopo il terremoto, quello di pochi anni prima che ha
ucciso mezzo paese.
Comunque,
il fruscio della TV è sicuramente meglio del rumore delle posate che
colpiscono ritmicamente il piatto. Quello, da solo, è ancora più
angosciante, quindi, ogni volta che rientro dalla campagna, accendo
la TV e la lascio fischiare.
La
cena è la stessa da diverso tempo. Patate. Dietro le mie spalle,
appeso malamente alla parete, c'è l'omonimo quadro di Van Gogh, i
mangiatori di patate. Una copia da quattro soldi, mica quello
originale. L'ho trovato qualche giorno prima in una delle tante case
crollate o abbandonate; non ricordo con precisione. L'ho appeso e ne
ho fatto un monito, una denuncia. Ero stanco di mangiare sempre e
solo patate ma mia moglie, Viola, non ne capisce niente di arte,
quindi ha continuato a cucinare patate.
I
nostri sguardi s'incrociano sempre quando siamo a tavola, spesso ci
fissiamo per delle ore, immobili come statue, finché il sonno non mi
colpisce forte con un martello dietro la testa e le dico, rassegnato,
di andare a letto.
Penso
sia anche sorda, perché tutte le volte dovo prenderla dal braccio e
trascinarla nella stanza.
Mi
sono svegliato all'alba. Mi sono vestito, mi sono sciacquato la
faccia in una bacinella e sono uscito di casa. Tutte le mattine
saluto Stefano, il vicino, ma lui non ricambia mai. Gli chiedo se
soffre ancora d'insonnia; lui si limita a fissarmi. Qualsiasi cosa
gli dico, Stefano non risponde, quindi alla fine la cosa mi annoia e
lo saluto, augurandogli comunque buona giornata. Le buone maniere
prima di tutto.
Il
campo è poco distante da casa, quindi ci metto molto poco a
raggiungerlo. Lascio sempre tutti gli attrezzi all'aperto; mi fido
ciecamente del mio paese.
Quel
giorno non ho fatto altro che zappare, tagliando via le erbacce anche
dai campi confinanti. Dopo il terremoto nessuno vuole più prendersi
cura della terra, quindi ci penso io.
Poco
prima del tramonto, ho raccolto delle patate e le ho portate a casa.
Le ho lasciate in cucina e ho gridato a mia moglie che ero tornato.
Allora sono andato in soggiorno e ho trovato lei e Aurora sedute sul
divano, davanti alla TV spenta. Ricordo di aver provato dell'odio, in
un certo senso. Comunque, rassegnato, mi sono messo a cucinare da
solo. Ho bollito le patate, le ho messe nei piatti e sono andato in
bagno. La vasca era ancora piena dell'acqua del giorno prima, quindi
mi sono spogliato e ci sono entrato dentro. Un bagno veloce, è
durato giusto il tempo di lavare via il sudore, poi ricordo di
essermi fatto la barba. E ricordo che mentre la rasavo a zero, mi
sono tagliato il mento.
A
cena, mia moglie non mi ha chiesto perché avessi un cerotto sul
mento. Mia figlia non l'ha nemmeno notato, credo. Come la sera prima,
finita la cena, ho dovuto trascinarle entrambe nei rispettivi letti.
Ero stanco, quindi mi sono girato dal lato opposto e ho dormito.
-
Giorno 2
Ricordo
che quella mattina mi sono svegliato più tardi del solito. Ho
lavorato, ho pranzato con un panino con le patate, ho salutato
Stefano, che di nuovo non mi ha risposto e quando sono tornato a
casa, avevo voglia di conversare.
Ho
detto delle cose alla mia famiglia. “Stefano soffre ancora
d'insonnia” ho detto a mia moglie. Viola mi ha guardato negli
occhi. “Lo trovo lì tutte le mattine, a qualsiasi ora, ed è
sempre lì quando torno” Viola mi ha guardato di nuovo, poi ha
continuato a impastare le patate con la forchetta.
Quella
sera ho mandato giù più vino del solito. Ricordo che mi girava la
testa, che mi sono alzato un po' barcollando e mi sono seduto sul
divano. Ho guardato la TV per un'ora o due, finché, a un certo
punto, ho smesso di barcollare per il vino e ho iniziato perché
vedevo tutto a punti bianchi e neri. Ho trascinato Aurora nel suo
letto, le ho augurato la buona notte, poi sono tornato da mia moglie
e le ho detto che avevo un po' voglia di lei. Viola mi ha guardato,
ha sbattuto una volta le palpebre ed è tornata a schiacciare le
patate con la forchetta. È stata quella la prima volta che mi sono
arrabbiato. L'ho afferrata per i capelli e l'ho tirata su, poi l'ho
trascinata per il braccio nella stanza, ho chiuso la porta, l'ho
sbattuta nel letto e abbiamo fatto l'amore. Anche mentre lo facevamo,
lei non parlava, non gemeva, non mi diceva niente. Non sorrideva, non
prendeva nessun tipo di iniziativa, eravamo lei sotto ed io sopra, io
che mi dannavo, che sudavo, e lei che fissava un punto imprecisato
della stanza. Quindi mi sono fermato perché la cosa non mi eccitava,
ho ripreso un po' di fiato, respirandole sulla fronte, e mi sono
sdraiato sul mio lato del letto. Ho spento la luce e mi sono
addormentato poco dopo.
-
Giorno 3
Quel
giorno ho deciso di fare un giro diverso dal solito, quindi sono
passato per il centro del paese. Nonostante sia prima mattina, c'è
un po' di gente seduta sulle panche. Ricordo anche di un bambino, un
ragazzino poco più grande di mia figlia, che gioca sull'altalena. Li
ho salutati con un cenno della testa. Ho preso le sigarette dalla
tasca e me ne sono fumato una. Dopo il terremoto avevo deciso di
smettere ma quel giorno ho cambiato idea, quindi ho ricominciato.
“È
una bella giornata” ho detto al signore seduto sulla panchina.
Questo mi ha guardato in modo strano. Mi sono seduto al suo fianco e
ho fissato l'orizzonte per un po'. Ho fumato un'altra sigaretta, gli
ho soffiato del fumo sulla faccia ma il signore ha fatto finta di
niente. Allora mi sono alzato e mentre tornavo a casa, sull'altro
lato della strada, ho visto la signora Teresa. L'ho salutata agitando
la mano, lei mi ha guardato con un po' di confusione. “Sono io”
le ho detto mentre mi avvicinavo. “Sono Noah” ma la signora
Teresa ha continuato a fissarmi in quel modo. “Avete un bel
vestito. Vi dona” è blu cobalto, ha dei diamanti finti come
bottoni e ci ha abbinato un enorme cappello di quelli un po' vecchi,
sempre dello stesso colore. Al braccio ha una borsetta della stessa
seta e al collo una collana molto vistosa, che brilla sotto i raggi
del sole. “Sto andando a lavoro” le ho detto infine. “Buona
giornata” ho abbassato la testa e sono tornato nel mio campo di
patate.
-
Giorno 4
È
domenica, quindi mi concedo un giorno di riposo dalla campagna. Lo
passo per lo più sul divano, mezzo nudo e con il bicchiere di vino
sempre pieno. La TV sfrigola, i punti bianchi e neri un po' mi
uccidono la vista un po' mi rilassano e di questi tempi accetto ogni
spiraglio di tranquillità, anche quella che nasconde del dolore o
della noia.
Riempio
il bicchiere di vino e scopro che la bottiglia è finita. Allora
chiamo mia moglie, le urlo di raggiungermi. La chiamo per nome non so
quante volte; niente. Afferro la bottiglia vuota, mi alzo di colpo,
vado nella stanza da letto e mi metto a urlare. Lei è lì che si
guarda allo specchio.
Mi
gira molto la testa, quasi vado a sbattere contro l'armadio. Apro la
finestra, lancio la bottiglia in strada e respiro un po' di aria
fresca. Questo mi calma.
Afferro
Viola dalla mano e la trascino in cucina. La faccio sedere sul
divano, quindi mi siedo al suo fianco. Guardiamo insieme la TV per un
po', forse dieci o quindici minuti.
Non
so perché ma mi sento depresso e mi viene da piangere. Lentamente
abbraccio mia moglie, la stringo forte, affondo la testa nei suoi
seni e restiamo in quella posizione fino a notte inoltrata. Quando
alzo la testa dal suo petto, scopro che le ho bagnato il vestito di
lacrime e bava. Mi scuso, prendo un tovagliolo e lo batto sulla
stoffa. Spengo la TV e le chiedo se mi ama. Le dico “Mi ami?”
senza parlare, soltanto muovendo le labbra. Mi alzo, mi chino alla
sua altezza e le indico le mie labbra. “Mi ami ancora?” dicono le
mie labbra. Lei però mi guarda negli occhi.
-
Giorno 5
Ho
rinunciato a farmi capire da mia moglie e da mia figlia. Mi rendo
conto, in realtà, di aver rinunciato a troppe cose nella vita.
Decido di rimediare.
Esco,
dico a Stefano che per quanto mi riguarda può anche morirci,
d'insonnia, e vado in un negozio di vestiti. Ci sono solo due
persone. La proprietaria, dietro al bancone, e una donna alta e
magra, nella vetrina, che dovrebbe lavare il vetro ma se ne sta lì a
fissare la strada. Mi sento un po' in imbarazzo, a dire il vero.
Saluto Maria con un cenno della testa, lei solleva lo sguardo dalla
rivista e lo riabbassa nell'istante successivo. Mi guardo intorno, mi
gratto la testa; non ricordo la taglia di mia moglie. Comunque passo
in rassegna diversi abiti finché non trovo uno simile a quello della
signora Teresa, blu cobalto, molto corto e stretto, e lo porto sul
bancone. Chiedo alla signora Maria il prezzo ma lei non risponde.
Guardo dietro al vestito, dove c'è la targa; 150€. Dico che
secondo me sono un po' troppi ma alla fine Maria riesce a convincermi
del contrario. Le lascio i soldi sul tavolo ed esco dal negozio. La
ragazza nella vetrina mi segue con lo sguardo.
Siccome
è ancora presto, lascio la busta vicino la staccionata e lavoro un
po' in campagna. Do da mangiare alle galline di Federico, saluto il
cavallo di Stefano, dicendogli che gli ho portato una mela. Il nome
del cavallo è Stella. Stella divora la mela in due morsi e mi
ringrazia agitando la testa e le zampe.
Torno
a casa prima del tramonto. Aurora è seduta sul pavimento, in cucina,
mentre Viola fissa il paese fuori dalla finestra. Prendo la bambina
tra le braccia e la porto nella sua stanza. La faccio sdraiare sul
letto e la copro con il lenzuolo, quello con i disegni di fiori e
orsi. Faccio per andare via, poi cambio idea e resto un po' a
guardarla finché non si addormenta. Allora le do un bacio veloce
sulla fronte e le chiudo la porta.
Prendo
mia moglie per il braccio e la trascino nella stanza. La spoglio e le
metto l'abito nuovo, poi mi allontano e resto incantato dalla sua
bellezza. Mi siedo sul letto, mi riempio un bicchiere di vino e resto
lì a fissarla per tantissimo tempo.
-
Giorno 6
Non
ho molto da fare in campagna, quindi torno a ora di pranzo. Pranziamo
tutti e tre insieme ma sono l'unico che mangia le patate. Viola e
Aurora, come al solito, ci giocano.
Mia
moglie indossa ancora l'abito blu cobalto. Oggi ho deciso che non le
sta bene come ieri, quindi dopo pranzo la riporto in camera e la
rivesto con i suoi soliti vestiti. Le dico, poco dopo, che ho voglia
di una vacanza. Lei non risponde; non mi aspettavo niente di diverso.
Le dico anche che parto l'indomani, che me ne vado, che le abbandono
entrambe. Che non tornerò mai più. “Piangi” le dico.
“Disperati” e ancora: “odiami” ma lei non piange, non si
dispera e tanto meno ha l'aria di una che odia. Stringo i pugni e i
denti, mi metto a piangere, mi dispero e la odio. Mi arrabbio più
del solito. Tutto quello che mi capita tra le dita, lo prendo e lo
lancio contro le pareti, contro lo specchio, contro la finestra. Lei
se ne sta lì immobile, impassibile, con gli oggetti che le sfiorano
la pelle e i capelli.
Mi
calmo quando ormai fuori è sera. Mi sdraio sul letto e ci resto fino
alla mattina dopo.
-
Giorno 7
Dio
ha creato il mondo in sette giorni.
Io
in sette giorni l'ho distrutto.
Poche
ore prima ho fatto sdraiare mia moglie sul lenzuolo bianco. Lei non
ha detto una parola nemmeno quando le ho coperto il volto e l'ho
trascinata fuori. Con mia figlia è stato un po' più difficile. Ci
ho messo più tempo perché volevo godermi quegli ultimi istanti in
sua compagnia. Nemmeno lei ha detto una parola quando l'ho ricoperta
di fiori e orsi.
Ho
preso la vanga e le ho seppellite proprio nel nostro campo di patate.
Stanco morto, ho gettato la pala sul cumulo di terra e ho guardato il
cielo. Non mi sono mai sentito così libero, così felice. Sono
rientrato in casa. È tutto a pezzi, qui dentro. Ci sono macerie
ovunque, ci cammino sopra. Prendo il cappotto e le chiavi della
macchina ed esco. La casa si regge in piedi per grazia divina ma
ormai fa parte del passato, non è più nei miei interessi.
Passo
accanto a Stefano. Oggi Stefano somiglia a uno di quei manichini
bianchi che ci sono di solito nei negozi di vestiti. Comunque evito
di guardarlo perché nemmeno lui, nemmeno la sua insonnia, fa più
parte dei miei interessi.
Prendo
la mia vecchia auto, faccio riscaldare un po' il motore prima di
partire, accendo le luci e do gas.
Passo
accanto alla signora Teresa. Anche lei sembra uno di quei manichini
magri e slanciati, bianchi e fulgidi. Anche il bambino che gioca
sull'altalena o il signore seduto sulla panchina. Non mi interessa
più niente di loro, quindi proseguo dritto e mi lascio il paese alle
spalle.
Una
volta un prete mi ha chiesto di provare a vedere Dio come una persona
normale. Io ancora oggi lo immagino allo stesso modo, triste,
laconico, riservato e schiavo della propria immagine.
Dio
ha creato il mondo in sette giorni, io in sette giorni l'ho
distrutto. C'è solo una cosa che mi chiedo adesso, prima di
scomparire per sempre. Mi chiedo chi, tra noi due, tra il creare e il
distruggere, abbia fatto la scelta migliore.
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